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Intolleranze alimentari
Quando si parla di alimentazione ogni italiano che si rispetti drizza le antenne.
Noi italiani siamo famosi per l’importanza che diamo al cibo; il momento del pasto è per noi un rituale, una tradizione, un momento di condivisione e di festa. E' proprio per questo che quando si parla di alimentazione ogni italiano che si rispetti drizza le antenne, figuriamoci quando si parla di intolleranze alimentari...guai a chi ci tocca il caffettino o la nostra adorata pizza!
Quando si parla di intolleranze alimentari ci rendiamo conto che ancora c'è tanta poca conoscenza sull'argomento... e la non conoscenza, si sa, porta sempre alla paura o addirittura ad evitare ed aggirare il problema...sino a quando non ci si ritrova ad affrontare vere e proprie patologie che avremmo potuto evitare!
Vediamo quindi di conoscere meglio le principali intolleranze alimentari (glutine,lattosio, fruttosio, caffeina ed alcool)e di fare chiarezza su cosa sono e su cosa possiamo fare nel caso in cui pensiamo di rientrare nella casistica:
- Intolleranza al glutine
- Intolleranza al lattosio
- Intolleranza alla caffeina
- Intolleranza al fruttosio
- Intolleranza all'alcool
L’intolleranza al glutine
Il glutine è una sostanza lipoproteica presente in cereali quali frumento, farro, segale, kamut ed orzo. E' opportuno parlare di "intolleranza" al glutine poiché non si tratta di vera allergia, in quanto le reazioni che causa non sono assimilabili alle manifestazioni tipicamente allergiche (quali quelle ai pollini o agli acari della polvere di casa).
L’incidenza di questa malattia è andata vertiginosamente aumentando in questi ultimi anni, non perché sia in realtà cresciuto il numero di persone intolleranti, ma piuttosto perché si sono resi disponibili esami che ne hanno reso più facile l'individuazione.
Spesso l’intolleranza (o sensibilità) al glutine viene scambiata per celiachia.
Si stima che, se il numero di celiaci in Italia è di circa 500.000 unità, i pazienti con sensibilità al glutine possano essere almeno 3 milioni.
La differenza sostanziale tra le due patologie è che l’intolleranza al glutine è molto meno grave della celiachia.
Tra i sintomi frequenti della sensibilità al glutine ci sono:
- dolore addominale
- gonfiore
- stanchezza
- formicolio a mani e piedi
- diarrea, o stipsi, od alvo alterno
- sonnolenza
- difficoltà di concentrazione
- parestesie degli arti
- dolori articolari
- annebbiamento mentale
- rash cutanei tipo eczema
- anemia
- emicrania
Tale quadro clinico va in rapida remissione (pochi giorni) con l’eliminazione del glutine dalla dieta.
A differenza della celiachia la sensibilità al glutine non segue un percorso prefissato: i sintomi possono essere più pronunciati o scomparire nel tempo.
I sintomi avvertiti dall’intollerante al glutine sono quindi solo in parte simili a quelli dei pazienti celiaci, ma chi è sensibile al glutine di norma risulta negativo agli esami del sangue per la celiachia e non presenta i sintomi delle lesioni all’intestino tenue che contraddistinguono la celiachia.
L’intolleranza al lattosio
L’intolleranza al lattosio è abbastanza diffusa nella popolazione, precisamente nell’Italia meridionale i soggetti che presentano tale difetto sono circa il 70%, nell’Italia settentrionale intorno al 50%, mentre l’incidenza percentuale nell’Europa centrale si aggira attorno al 30% ed è decisamente minore nell’Europa settentrionale, attestandosi attorno al 5%.
E’ causata dalla carenza di lattasi, che fa sì che l’organismo non riesca a digerire il lattosio, uno zucchero che rappresenta la quasi totalità dei carboidrati presenti nel latte (98% circa). La lattasi ha il compito di scindere il lattosio in zuccheri più semplici (glucosio e galattosio) permettendone il successivo assorbimento a livello gastrointestinale.
Non è detto che tutti i soggetti carenti di lattasi presentino una sintomatologia rilevante a livello clinico; quando però ciò succede il soggetto viene definito come intollerante al lattosio. Nella maggior parte dei soggetti, la presenza dell’enzima inizia a diminuire a partire dall’età di due anni, ma è abbastanza raro che la sintomatologia si presenti prima dei sei anni di età.
Quando l’intolleranza al lattosio dipende dalla carenza di lattasi, si parla di deficienza primaria, che è ereditaria, in quanto trasmessa dai genitori ai figli. Possono esserci però casi (ad esempio morbo di Crohn, celiachia, infiammazioni e infezioni dell’intestino) in cui danni all’intestino danneggiano le cellule che producono la lattasi ed in questo caso si può avere un’ intolleranza secondaria, acquisita non tanto per la mancanza dell’attività dell’enzima stesso, ma della sua produzione.
L'intolleranza al lattosio si manifesta con i seguenti sintomi:
- flatulenza
- meteorismo
- crampi addominali
- mal di testa
- diarrea, o stipsi, od alvo alterno
- dimagrimento
- gonfiore addominale
La terapia è alimentare e prevede la riduzione oppure l'esclusione totale dalla dieta dei cibi contenenti il lattosio (latte e derivati); principalmente latte vaccino, latte di capra, latticini freschi, gelati, panna e molti dolci e biscotti contenenti latte ma attenzione anche ad altri cibi come ad esempio il prosciutto cotto o insaccati (dove il lattosio viene aggiunto come additivo al fine di mantenere una giusta morbidezza delle carni) oppure anche altri alimenti come i cibi precotti, alcuni tipi di pane in cassetta e molti farmaci possono contenere lattosio.
Il test più comunemente utilizzato per la diagnosi di intolleranza al lattosio è il Breath Test (BTH) che comporta un grande impegno temporale da parte del paziente, con manifestazioni importanti dopo l’ingestione del lattosio ed una preparazione adeguata nei giorni precedenti il test medesimo. Nonostante questo, alcune patologie concomitanti, comportamenti non adeguati precedenti il test o l’assunzione di alcuni farmaci, possono portare a risultati falsi positivi o negativi. Diversamente il test genetico risulta essere non invasivo e veloce, permettendo di distinguere le cause di questa intolleranza e quindi di calibrare diete adeguate contribuendo così in modo più efficiente alla scomparsa del sintomo.
L'intolleranza alla caffeina
La caffeina è una sostanza alcaloide naturale rinomata per la sue proprietà stimolanti: viene ingerita prevalentemente sotto forma di caffè, tè, cioccolata.
Tra i suoi effetti ci sono:
- agisce come eccitante, riducendo temporaneamente la sensazione di fatica
- migliora i riflessi
- aumenta la capacità di concentrazione
- ha una lieve azione antidolorifica
- favorisce il rilascio di adrenalina e noradrenalina, catecolamine che favoriscono l’aumento del metabolismo, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa.
- aumento della sintesi acida a livello gastrico
- aumento della diuresi
- se applicata sulla cute tramite cosmetici specifici (creme, gel e patch), risulta utile nel trattamento delle adiposità localizzate
- ha la capacità inoltre, come poche altre sostanze, di passare rapidamente la barriera emato-encefalica, nonché di attraversare la placenta ed essere presente nel latte materno.
L’intolleranza al caffè, nonostante quanto si possa comunemente pensare, è molto diffusa.
Secondo recenti studi condotti su un ampio numero campione della popolazione, sono sempre di più le persone che scoprono, attraverso i test appositi, di essere intolleranti alla caffeina.
In coloro che soffrono di intolleranza alla caffeina, la scarica di adrenalina da caffeina può causare i fastidiosi sintomi quali:
- battito cardiaco accelerato;
- ansia;
- nervosismo;
- mal di testa;
- insonnia;
- disturbi gastrici;
- senso di gonfiore;
- bruciore agli occhi o al naso;
- lacrimazione eccessiva
Nei casi più gravi si possono notare casi di
- vomito
- tosse
- nausea
- diarrea
- difficoltà digestive
Un importante studio del 2006 pubblicato nel Journal of the American Medical Association , Cornelis et al. hanno monitorato circa 4000 individui di cui 2000 reduci da infarto del miocardio; considerando altri fattori variabili come il consumo del cibo, l’attività fisica o lo stato socio economico, la loro ricerca ha evidenziato come le persone a metabolizzazione lenta di caffeina secondo il gene CYP1A2, erano associate ad un alto rischio di infarto , rischio che aumenta, anche in base al numero di tazzine consumate.
"Il pericolo di infarto cresce del 36% nei metabolizzatori lenti che bevono due o tre tazze di caffè al giorno", concludono i ricercatori, "e si arriva fino al 64% per i forti consumatori di caffè, ossia coloro che ne consumano quattro o più tazze al dì. E il rischio è doppio se di età inferiore a 59 anni, quadruplo se minori di 50". Al contrario, chi ha la versione del gene associata a rapido metabolismo della caffeina risulta protetto dal rischio infarto, sempre che non si abusi di caffè.
Inoltre nell’Aprile del 2005 Sata et al. hanno pubblicato una studio sul Journal of Molecular Human Reproduction,nel quale si metteva in relazione la caffeina con la fertilità e la gravidanza. Questo studio ha dimostrato che le donne con il gene codificante il metabolismo lento per caffeina hanno un rischio maggiore di abortire e di ridurre la fertilità se consumano da una a tre tazze di caffè al giorno,mentre le donne a metabolizzazione veloce non corrono questi rischi pur consumando le stesse quantità di caffè.
Contrariamente a quanto si crede, la quantità di caffeina non dipende dal volume di caffè bevuto (all'aumentare della quantità di acqua più caffeina finirebbe nel caffè).
I dati medi di contenuto di caffeina sono:
- per una tazza o una lattina di tè circa 20-30 mg di caffeina
- una tazza di cioccolata 10 mg
- una lattina di Coca-Cola normale, Diet o di Pepsi circa 40 mg
- una Red Bull 80 mg
Il contenuto di caffeina in una tazza di caffè può dipendere da molti fattori come ad esempio il metodo di preparazione, la miscela usata e la quantità di caffè usata. (una miscela robusta ha un contenuto 2,5 volte più alto di caffeina di una miscela arabica.)
E’ importante ricordarsi poi che la caffeina non si trova solamente nel caffè,ma in molte altre bevande o prodotti, sempre più frequentemente oggi infatti viene utilizzata in barrette dietetiche e bevande energizzanti, prodotti erboristici analgesici, cosmetici anticellulite,nonché in molti altre specialità farmaceutiche acquistabili senza ricetta medica.
Il Test del DNA rileva se il soggetto d’indagine è un metabolizzatore lento o veloce di caffeina.
Gli individui che metabolizzano lentamente la caffeina devono monitorare la dose quotidiana, se la consumano in maniera eccessiva infatti (più di 2 o 3 tazze di caffè o 200 mg di caffeina a 1 al giorno) possono avere effetti negativi sul loro organismo incluso un aumentato rischio di infarto.
Il Test del DNA è pertanto consigliato a tutti i grandi consumatori di caffè o di bevande, alimenti contenenti caffeina e chiunque voglia trarre vantaggio dai più recenti studi scientifici che indicano come migliorare sensibilmente lo stile di vita e mantenersi in buona salute e alle donne con abortività ricorrente o problemi di infertilità i cui esami specialistici diagnostici a riguardo non hanno rilevato la causa.
L'intolleranza al fruttosio
Il fruttosio è uno zucchero, un monosaccaride, naturalmente presente in una varietà di alimenti. In particolare è rilevabile in alcuni tipi di frutta e di verdura ma il suo contenuto risulta notevole in molti alimenti confezionati come dolci e bevande analcoliche, sotto forma di dolcificanti artificiali.
Gli esseri umani hanno una limitata capacità di assorbimento di tale zucchero. Al contrario del glucosio che viene completamente assorbito, attraverso un meccanismo di trasporto attivo nell’intestino tenue, facilitato da trasportatori GLUT-2 e GLUT-5, il fruttosio è assorbito principalmente attraverso diffusione facilitata e mediante un carrier GLUT-5, con un processo passivo.
L’incapacità di metabolizzare correttamente tale zucchero può essere correlata ad una aberrazione genetica chiamata “intolleranza ereditaria al fruttosio”, dovuta ad una deficienza di un enzima epatico, aldolasi oppure ad un assorbimento incompleto del fruttosio “malassorbimento di fruttosio”, condizione non legata a fattori genetici, ma associata alla bassa capacità di trasportare il fruttosio attraverso l’epitelio intestinale.
Il malassorbimento di fruttosio a livello dell’intestino tenue genera due effetti nell’intestino crasso: una forza osmotica capace di aumentare l’afflusso di acqua nel lume e la sua fermentazione ad opera del microbiota, che porta alla produzione di gas.
I sintomi normalmente sono riscontrati a livello gastrointestinale come:
- gonfiore addominale
- gas
- flatulenza
- dolore
- distensione addominale
- nausea
- diarrea
Questo zucchero è presente naturalmente nella frutta e nei succhi di frutta; in particolare il suo valore è considerevolmente maggiore rispetto al glucosio nelle mele, nelle pere, nel cocomero.
Nel miele, nella melassa e nello sciroppo d’acero il rapporto glucosio/fruttosio è compreso rispettivamente tra 0.9: 1.0 e 1,0: 1,0.
Diversi studi indicano anche che l’assorbimento di fruttosio è dose-dipendente ed è facilitato dalla contemporanea assunzione di glucosio. Studi clinici hanno dimostrato che la somministrazione di fruttosio in combinazione con altri zuccheri, amido o con un pasto misto riduce la probabilità di malassorbimento, sia in individui sani che in soggetti con funzione intestinale compromessa.
La compliance del paziente nel seguire la dieta con restrizione del fruttosio è associata ad un miglioramento significativo dei sintomi, entro un anno.
E’ stato inoltre osservato che nella maggior parte dei casi la riduzione dell’apporto con la dieta è efficace già dopo 2-6 settimane si abbia con remissione dei sintomi.
Successivamente si consiglia di iniziare una fase di reintroduzione di piccole quantità di alimenti contenenti fruttosio a dosi crescenti, al fine di determinare le dosi tollerabili ed avere una dieta meno restrittiva possibile, pur monitorando i sintomi. In genere, i pazienti possono tollerare 10-15 g di fruttosio al giorno.
Una dieta con contenuto limitato di fruttosio è un trattamento efficace, ma ulteriori studi sono necessari per valutare l’efficacia a lungo termine e l’adesione a tali diete.
L'intolleranza all’alcool
L'etanolo (CH3-CH2-OH), ossia l'alcol etilico, è una piccola molecola costituita da due atomi di carbonio, estremamente solubile sia nell'acqua che nei lipidi.
Grazie alle sue dimensioni ridotte, rispetto ad altre molecole, penetra facilmente nei tessuti entrando nel flusso sanguigno piuttosto rapidamente e, attraverso di esso, si diffonde in tutto l'organismo in breve tempo.
L'alcol etilico, oltre all'acqua, è il principale componente delle bevande alcoliche. La sensibilità all’alcol nasce dall’incapacità di metabolizzare correttamente le quantità assunte a causa di un difetto genetico che limita la produzione degli enzimi coinvolti nel processo.
I segni e sintomi più comuni di sensibilità all’alcol sono congestione nasale ed arrossamento della pelle. E’ opportuno però sapere che, in alcuni casi, la sensibilità all’alcol è associata alla sensibilità ai solfiti.
Il Test del DNA analizza una variante genetica che classifica i portatori come “metabolizzatori lenti”, che tendono ad avere un’ alcolemia elevata e manifestarne i relativi malesseri.
Dalle ultime ricerche effettuate dai laboratori di biologia molecolare di Cambdrige è emerso che l’alcol è in grado di danneggiare il DNA delle cellule staminali spiegando così come bere alcolici aumenti il rischio di cancro:
I test sono stati effettuati su topi a cui è stato somministrato etanolo diluito. Attraverso l’analisi dei cromosomi e del sequenziamento del DNA i ricercatori sono riusciti a stimare il danno genetico procurato dall’acetaldeide, una sostanza chimica nociva prodotta quando il corpo processa alcol assunto per ingestione. Dalle analisi gli scienziati hanno rilevato come l’acetaldeide sia in grado di rompere e danneggiare le sequenze di DNA delle cellule staminali del sangue.
l danneggiamento del DNA di tali cellule è estremamente nocivo per via del fatto che la corruzione del DNA di cellule sane può portare all’insorgenza di tumori.
Lo studio ha indagato inoltre quali sono i mezzi di difesa dell’organismo contro le mutazioni causate dall’acetaldeide. La prima linea di difesa sarebbe una famiglia di enzimi, noti con la sigla ALDH, in grado di agire sull’acetaldeide trasformandolo in acetato, sostanza che le nostre cellule sono in grado di utilizzare come fonte di energia. Nello studio in laboratorio, i topi sprovvisti di questo tipo di enzima hanno riportato un danno al DNA quattro volte maggiore.
Nel mondo, milioni di persone, in particolare in Sud Est Asiatico, sono sprovviste di questi enzimi o hanno delle versioni difettose, aumentando così di fatto il rischio di esposizione agli effetti dell’acetaldeide pertanto non essere in grado di processare l’alcol in modo efficace può comportare un pericolo ancora più elevato rispetto a coloro i cui meccanismi di difesa funzionano correttamente.
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Sta emergendo sempre più, come alla base delle intolleranze alimentari, ci sia una significativa componente genetica.
Capire come queste differenze interindividuali siano geneticamente definite ha costituito uno dei principali obiettivi dei genetisti negli ultimi anni. Le informazioni acquisite con gli screening genetici su larga scala, hanno evidenziato che la presenza di particolari varianti geniche definite SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms) erano associate alla predisposizione a diverse malattie quali l’obesità, il diabete, l’ipercolesterolemia, patologie dell’apparato cardio-respiratorio, del sistema nervoso ed immunitario e addirittura alcune forme di cancro.
Tra le patologie dove è stata stabilita la correlazione tra variante genica e malattia, esistono esempi di disfunzioni enzimatiche che causano pericolose malattie metaboliche come la fenilchetonuria o importanti intolleranze alimentari molto diffuse nella nostra popolazione, associate a mutazioni o a varianti del DNA che ne permettono una diagnosi precoce.
Il test del DNA ha l’obiettivo di evidenziare condizioni patologiche non manifeste per la mancanza della tipica sintomatologia o di contribuire ad identificare la causa. La diagnosi precoce è importantissima per prevenire la progressione di forme “leggere”, o spesso anche clinicamente silenti, verso gravi patologie croniche . Se il sintomo è presente, il test del DNA conferma o chiarisce diagnosi dubbie, permettendo così di identificare gli alimenti o le condizioni scatenanti per un’efficiente riduzione dei sintomi.
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